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Editoriale di DANIELA ZAMBURLIN

Quid non mortalia pectora cogis,
Auri sacra fames, scrive Virgilio nell’Eneide ricordando l’efferato delitto di Polidoro, iglio di Ecuba e di Priamo, per mano di Polimestore che voleva impossessarsi del tesoro afidato al giovane dai genitori.
I versi signiicano “a cosa non spingi i petti mortali, miserabile cupidigia dell’oro”; accostano il carattere di selvaggia lotta della vita all’empia e smodata cupidigia e giocano sul signiicato di “sacra”, che malgrado l’assonanza con l’accezione più diffusa, vuol anche dire “esecrabile”.

Virgilio (70-19 aC) pone qui una domanda nella quale è contenuta una delle principali motivazioni relative al problema della povertà e della ricchezza: la cupidigia. Il pensiero della classicità romana continua ancor oggi a permeare la nostra storia, tuttavia nei secoli successivi la ilosoia Scolastica subordina il dibattito su ogni relazione umana alla esistenza della legge di Dio.

Secondo il pensiero di Tommaso d’Aquino (1225-74) , la gerarchia legge-eterna / legge-naturale / legge- umana colloca verticalmente e giustiica ogni diritto naturale: la proprietà, la schiavitù, e anche i vestiti, apparterranno per sempre al genere umano. Anche il dibattito sulla cupidigia umana si sposta a monte, direttamente sulla natura e legittimità della proprietà, che ne sono il presupposto.

Pochi decenni dopo, Giovanni Duns Scoto (1265-1305) propone una prospettiva nuova: la proprietà non è una legge di natura, bensì un mero diritto positivo, un patto fra uguali di una comunità o loro rappresentanti, con norme che si basano sul consenso e pertanto sono revocabili. La proprietà, secondo Scoto (detto il dottor sottile), non ha funzione di garantire il ricco, ma di tutelare il povero, per evitare che “per bramosia il malvagio si appropri di cose ben oltre il necessario”. Al contrario di Tommaso, per Scoto la servitù non rientra nel diritto naturale, pertanto è ” insensata”, a meno che il soggetto non sottoscriva un contratto in cui non concede il proprio corpo, ma il proprio tempo, cioè una prestazione d’opera.

Concezione sorprendente che resiste e adattandosi ai tempi in gran parte è giunta ino a noi. Oltre sei secoli dopo, Karl Marx (1818-83) scardina la titolarità della proprietà, sostenendo com’è noto la necessità di abolirla come diritto individuale. E a proposito della ricchezza e della cupidigia? Non basta la fragile tutela suggerita da Scoto.

Nel Capitale Marx è lapidario e richiama il monito di Virgilio: «Il denaro non è soltanto un oggetto della brama di arricchimento, è invece il suo oggetto. Essa è essenzialmente auri sacra fames. La brama di arricchimento in quanto tale, come forma particolare di appetito […], Il denaro non è dunque soltanto l’oggetto della brama di arricchimento, ma ne è in pari tempo anche la fonte. […] Di qui i lamenti degli antichi sul denaro come fonte di ogni male». ”La proprietà è il furto”: questa affermazione di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) —ilosofo e moralista francese— divenne uno slogan passato alla storia, per sintetizzare sbrigativamente la economia cooperativa (una sorta di socialismo ante litteram) che egli formulò schierandosi decisamente contro la teoria di Marx, il quale non gli risparmiò le sue critiche anche aspre deinendolo più che un economista un pasticcione romantico.

Tutti sappiamo come entrambe le teorie non ebbero lo sviluppo immaginato dai loro ideatori. Negli anni ’60 la protesta sullo scontro sociale che riproponeva l’antinomia ricchezza-povertà fece riecheggiare ”La proprietà privata è un furto”. Ma il seguito popolare ebbe breve durata e il reaganismo degli anni ’80 (dalla Thatcher a Mandelson, da Blair a Deng Xiaoping, senza tralasciare Craxi, Berlusconi e —perchè no— D’Alema ristabilì il precedente equilibrio. E noi contemporanei quale posizione assumiamo riguardo a ricchezza e povertà? Per brevità limitiamoci al mondo a noi più vicino della cosiddetta cultura occidentale. I “Padri Fondatori” degli Stati Uniti d’America non potevano certo iscrivere il verso virgiliano nel Great Seal (Grande Sigillo) USA che tuttora campeggia sul retro della banconota da un dollaro, su cui si legge: Annuit coepitis («Dio è favorevole all’impresa »), che è la versione affermativa del diritto alla proprietà e implicitamente alla ricchezza.

L’Europa è paralizzata dal predominio della globalizzazione, la ricchezza per la maggioranza dei suoi cittadini è quasi un ricordo che sembra allontanarsi sempre di più. Un tempo si discuteva se la ricchezza porti o no la felicità. Oggi il problema è un altro: la diseguaglianza. Non si tratta di favorire l’eguaglianza pura, ma piuttosto di perseguire l’attenuazione e la regolazione del divario delle diseguaglianze. Questo è il cammino che si può e si deve percorrere.